Le ultime novità in ambito tecnologico portano a chiederci: l’AI ci ruberà il lavoro?

12/10/2025

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Paura e curiosità accompagnano ogni grande svolta tecnologica. Dalla macchina a vapore a Internet, fino all’intelligenza artificiale, la storia si ripete. La domanda è sempre la stessa: “Sarà una minaccia per il lavoro umano?”. I dati indicano di no, almeno non in senso assoluto: più che eliminare posti, l’IA sta ridisegnando professioni e competenze.

Secondo l’indagine Ipsos condotta in 31 Paesi, il 57% dei lavoratori ritiene che l’intelligenza artificiale cambierà il proprio lavoro nei prossimi anni, mentre il 36% teme una possibile sostituzione. Si tratta di un segnale evidente di “AI anxiety” diffusa, fondata su timori reali più che mediatici.

In Italia, le preoccupazioni per ora non trovano riscontro nei principali indicatori occupazionali. I dati Istat mostrano, a giugno 2025, un tasso di disoccupazione pari al 6,3% e un’occupazione in lieve crescita. Tuttavia, resta elevata la percezione del rischio di obsolescenza: circa un terzo dei lavoratori teme che le proprie competenze possano rapidamente perdere rilevanza.

“L’AI ci sostituirà?”

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, è più corretto parlare di “esposizione” che di vera sostituzione: la generative AI tende a trasformare i lavori piuttosto che eliminarli del tutto. Automatizza fasi e compiti all’interno delle professioni, senza cancellarle in blocco. L’effetto è più evidente nei Paesi ad alto reddito, dove le attività d’ufficio e amministrative hanno un peso maggiore.

In altre parole, molti lavori rimangono, ma cambiano forma. Le mansioni più ripetitive vengono automatizzate, mentre crescono quelle complementari: gestire sistemi digitali, interpretare dati e integrare strumenti di AI nella routine lavorativa.

Il Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum prevede che entro il 2030 circa il 22% dei lavori subirà cambiamenti significativi, spinti da AI, tecnologia, demografia e geopolitica.

I ruoli più a rischio sono quelli amministrativi e ripetitivi: segreteria, data entry, cassieri, contabili e revisori. Cresce invece la domanda di professionisti in AI, big data, ingegneria software, cybersecurity e figure legate all’economia digitale.

Anche i mestieri creativi non restano immuni: alcune fasi automatizzabili vengono sostituite, mentre compiti che richiedono contesto, giudizio e relazioni restano saldi.

L’AI rielabora dati, individua schemi e li ricombina in modo probabilistico. Il risultato può sembrare nuovo, ma l’originalità è solo statistica. La creatività umana, invece, rompe gli schemi: interpreta valori, assume rischi e introduce discontinuità. La complementarità è chiara: le macchine offrono efficienza, gli esseri umani danno senso, giudizio e direzione.

Con il cambiamento del lavoro, la vera sfida non è quanti posti ci sono, ma quali competenze possediamo. Secondo il World Economic Forum, oltre all’alfabetizzazione tecnologica (AI, big data, reti, cybersecurity) crescono di valore le competenze trasversali: pensiero critico, resilienza, flessibilità, curiosità, apprendimento continuo, leadership e influenza sociale. Abilità umane che diventano sempre più decisive man mano che gli algoritmi avanzano.

Non basta avere talento: perché le competenze emergano davvero, serve il contesto giusto. La creatività umana si distingue da quella artificiale perché rompe gli schemi, ma pensiero divergente, nuove domande e idee innovative hanno bisogno di spazi che li rendano possibili.

A fare la differenza è la sicurezza psicologica: poter sbagliare, dissentire o esporsi senza paura di giudizi o ritorsioni. Non è solo una questione di cultura aziendale, ma un vero e proprio motore dell’innovazione. Lo conferma l’European Workforce Study 2025: tra chi si sente in un contesto psicologicamente sicuro, il 75% dichiara di poter sviluppare nuove idee e migliorare il proprio lavoro, contro il 33% di chi non si sente protetto.

In un mercato del lavoro in rapida trasformazione, la sfida principale è l’aggiornamento continuo. Senza investimenti costanti in formazione e riqualificazione, il rischio è di ampliare le disuguaglianze tra chi sa usare l’AI e chi resta escluso.

Con politiche mirate, però, la rivoluzione può diventare un’opportunità di crescita e redistribuzione delle competenze. Imprese, scuole e istituzioni devono lavorare insieme per aggiornare i mestieri e, allo stesso tempo, sviluppare le competenze che li rendono vivi.

L’AI ci ruberà il lavoro?

Non esattamente. Alcuni mestieri spariranno, molti cambieranno, altri nasceranno. La vera sfida è come li faremo.

Il rischio oggi è l’obsolescenza delle competenze: senza strumenti nuovi, tecnologici e umani, non creiamo valore. Il futuro si gioca su due fronti: alfabetizzazione all’AI e competenze umane. La prima ci permette di dialogare con gli algoritmi, le seconde di guidarne le scelte.

E serve un contesto che lo renda possibile: sicurezza psicologica per sperimentare, sbagliare e proporre nuove idee. La posta in gioco non è solo il lavoro, ma la capacità di renderlo davvero significativo domani.