Telelavoro a quota 30%
Due esigenze: da una parte c’è la richiesta dei lavoratori di un più umano equilibrio vita-lavoro, minor stress e aiuti alla gestione familiare. Dall’altra ci sono gli obiettivi aziendali di flessibilità, aumento della produttività e abbattimento dei costi di mantenimento delle sedi di lavoro. Due bisogni assolutamente conciliabili se si mettesse una quota di dipendenti a lavorare in casa propria e se si ricorresse a forme organizzative oggi poco praticate come il telelavoro (dal proprio domicilio) o il remote working (da postazioni esterne all’azienda).
Per ora l’Italia rimane in coda in tutto il continente con solo il 3,9% degli occupati in telelavoro contro una media europea del 8,4%, con punte in Danimarca che sfiorano il 16%, a seguire il Regno Unito al 9,6%, la Germania al 8,5% e Francia al 7%.
Da una recente indagine condotta da AstraRicerche per Manageritalia, il sindacato dei dirigenti e quadri del terziario, su un campione di 1.900 manager del settore emerge però che c’è un segmento della nostra economia, quello dei servizi, che sta utilizzando a sorpresa il telelavoro molto più della media: quasi un’azienda su tre (più precisamente il 29,5%).
Si tratta soprattutto di imprese con oltre 250 dipendenti, per lo più multinazionali estere situate al nord-ovest. Tra i vantaggi di tali forme organizzative troviamo sicuramente l’aumento della qualità del lavoro, maggiore concentrazione, facilitazione della vita professionale, riduzione dei tempi di viaggio (e costi da essi derivati), maggiore motivazione da parte dei dipendenti e di conseguenza livelli di produttività certamente non inferiori a quelli precedenti.
Resta, tuttavia, la diffidenza di molte aziende che non hanno mai adottato il telelavoro perché timorose della perdita del controllo sui dipendenti. Controllo che tuttavia andrebbe fatto sugli obiettivi che i lavoratori devono perseguire e non mediante il controllo a vista.
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