Il dress code
Niente doppie punte, né barba incolta in ufficio. Sono alcune disposizioni di un documento di 44 pagine arrivato sulla scrivania dei dipendenti Ubs nei mesi scorsi. La banca elvetica, impegnata in un piano di restyling dopo le tormente della crisi finanziaria, ha voluto dotarsi di un regolamento ufficiale per tutti i suoi collaboratori, in cui elenca in maniera puntuale le tipologie di abbigliamento consentite e quelle vietate.
A sentire analisti e manager d’azienda in Italia un dress-code ufficiale è inimmaginabile, eppure le regole non scritte fanno la differenza, a cominciare dalla fase di selezione dei candidati, fino alla scelta di chi promuovere.
Anche se sono in pochi ad ammetterlo infatti, in ufficio l’abito fa il monaco: secondo la consulente di immagine aziendale Lucinda Slater, intervistata dal Financial Times, “uno degli errori più gravi è di presentarsi al posto di lavoro dando un immagine di se poco curata perché significa non investire su se stessi”. Tuttavia c’è chi, come Henry Farrar-Hockley, associate editor del mensile maschile Esquire, si muove fuori dal coro, sostenendo che “l’abbigliamento formale è ormai superato dall’affermarsi dello street fashion anche in ufficio”.
Di certo restano i risultati di un sondaggio condotto dal sito britannico specializzato in recruiting online TheLadders da cui emerge che ben il 76% di top manager nella sua carriera ha scartato alcuni candidati per l’abbigliamento ritenuto improprio alle mansioni da svolgere e che il 37% lo ha fatto in tempi recenti.